Ancora troppo spesso banalizzato, l'effetto placebo, ossia il beneficio ottenuto da un preparato per il solo fatto di essere assunto, è una realtà supportata da numerose evidenze scientifiche.
"Placebo" deriva dal verbo latino "placere" e significa letteralmente "piacerò". Una promessa certa e sempre confermata quando il termine viene riferito a un preparato farmacologico somministrato per alleviare i sintomi di una malattia, anche quando il preparato in questione è del tutto inerte sul piano biologico, quindi inefficace.
Che sia dotata di una reale attività terapeutica oppure no, infatti, qualunque compressa, soluzione, supposta, iniezione o crema proposta come "benefica" lo diventa davvero se chi la usa è convinto della sua azione terapeutica favorevole, anche quando si tratta di una pallina di zucchero o di un po' di acqua e sale.
Ma perché un preparato inattivo e privo di qualsiasi effetto organico apprezzabile riesce a far stare meglio? È tutta suggestione?
Da che cosa dipende l'effetto placebo
Fino a non molti anni fa, l'effetto placebo veniva visto con una certa diffidenza e un po' di fastidio da parte dei medici, che tendevano ad attribuirlo a sintomi "immaginari", legati a disturbi psicoemotivi di vario tipo, in assenza di una reale malattia organica. In sostanza, l'idea generale era che, se un "finto farmaco" era efficace e riusciva a far stare meglio, doveva essere “finto” anche il disturbo per il quale veniva assunto.
L'effetto placebo, d'altro canto, ha sempre creato non pochi problemi ai ricercatori impegnati negli studi clinici finalizzati a verificare efficacia e sicurezza di nuovi farmaci. L'effetto placebo, infatti, influenza anche la risposta dei pazienti nei confronti dei medicinali veri, rendendo conto di una percentuale variabile, ma mai trascurabile, dell'effetto terapeutico complessivo.
Per questa ragione, in tutti gli studi clinici scientificamente provati, l'efficacia di un principio attivo deve essere confrontata con quella di un composto inattivo apparentemente identico, senza che né chi li assume né i medici che li somministrano sappiano quale dei due è stato dato (studio in doppio cieco).
A lungo si è ritenuto che l'effetto placebo dipendesse esclusivamente dalla "suggestione": in sostanza, si riteneva che il semplice fatto di sentirsi "curato" e l'attesa di ottenere un effetto positivo da un trattamento predisponesse il paziente a beneficiarne realmente e a sentirsi meglio, a prescindere dall'azione vera o presunta del trattamento stesso.
Questa interpretazione dell'effetto placebo (alla base anche del successo di molte "medicine alternative" prive di ogni fondamento scientifico, ma difese a spada tratta di chi vi si affida) è sicuramente vera, ma soltanto parziale. Le ricerche più recenti hanno, infatti, indicato che l'assunzione di un farmaco di cui si ha fiducia innescano una serie di reazioni biologiche favorevoli, che rendono i sintomi della malattia più tollerabili.
In particolare, è stato osservato che l'assunzione di un preparato placebo induce la liberazione di oppiacei endogeni (endorfine) da parte del sistema nervoso centrale e, probabilmente, anche di cannabinoidi endogeni, ormoni e neurotrasmettitori in grado di ridurre la percezione del dolore e di promuovere uno stato di benessere. Inoltre, sembrerebbe esserci una risposta positiva da parte del sistema immunitario.
Quando funziona l'effetto placebo
Fondamentalmente, per ottenere benefici dall'effetto placebo "basta crederci", a prescindere dalla malattia di cui si soffre.
Se è vero, infatti, che ad avvantaggiarsi di più delle "finte cure" sono soprattutto i disturbi funzionali, maggiormente influenzati dallo stress o dal disagio psichico (depressione, ansia, tratti ossessivo-compulsivi ecc.), altrettanto vero è che anche pazienti con malattie acute o croniche severe possono veder migliorare il proprio stato con l'aggiunta di una losanga alla menta o di un'iniezione di soluzione fisiologica.
Tipici esempi di disturbi che possono essere sostanzialmente alleviati da un preparato placebo, usato da solo o insieme a farmaci specifici risultati non risolutivi, sono:
- i disturbi gastroenterici (dispepsia, nausea, vomito, dolori intestinali, diarrea o stipsi ecc.)
- il mal di testa
- i dolori articolari
- la lombalgia
- le contratture muscolari
- i dolori mestruali.
Ma esistono indicazioni che l'effetto placebo potrebbe avere un ruolo anche nell'alleviare il malessere severo dei malati oncologici, se opportunamente sfruttato in aggiunta alle terapie attive di dimostrata efficacia.
Finora, purtroppo, l'effetto placebo è stato poco impiegato come coadiuvante dei trattamenti autorizzati, in parte perché ritenuto "non etico" nei confronti del paziente (dal momento che per funzionare il preparato inerte deve essere assunto credendolo un farmaco efficace), ma soprattutto perché non si può stabilire con precisione l'entità del beneficio potenzialmente ottenibile dal malato, sempre molto variabile essendo su base individuale.
Cos’è l’effetto “nocebo”
L'effetto placebo dimostra che in alcuni casi "fidarsi è bene". Chi non si fida, d'altro canto, rischia di sentirsi inutilmente male. È ormai assodato che, oltre all'effetto placebo, esiste un diametralmente opposto "effetto nocebo" ("nuocerò") che porta chi ha poca fiducia in un farmaco o molto timore dei suoi effetti indesiderati a sperimentarne più le supposte reazioni avverse dei benefici terapeutici dimostrati.
In questo caso, all'origine dei disagi organici percepiti c'è principalmente una reazione psicologica negativa al fatto di assumere un preparato che si ritiene più dannoso che utile, anche quando si è ingerita la solita pallina zuccherata.
L'effetto nocebo non deve essere sottovalutato perché può generare un serio malessere psicofisico e avere un impatto molto negativo sulla disponibilità alla cura e sull'aderenza alle terapie prescritte da parte dei pazienti, inducendoli a non trattare una malattia vera sulla scorta di credenze e timori infondati.