Parkinson: quali sono i sintomi?

I sintomi motori sono tipici della malattia di Parkinson, ma se ne possono aggiungere altri, come per esempio disordini del linguaggio.

La malattia di Parkinson, impropriamente detta anche morbo di Parkinson, è una patologia cronica ad andamento progressivo che coinvolge le funzioni cerebrali e motorie, con importanti conseguenze sulla qualità della vita.

Per quanto riguarda la sua diffusione, è la seconda malattia degenerativa del sistema nervoso più comune dopo quella di Alzheimer.
In Italia la malattia di Parkinson colpisce circa 250.000 persone, con 6.000 nuovi casi ogni anno.

L’incidenza, che nel sesso maschile è lievemente superiore rispetto a quello femminile, è correlata al progredire dell’età, ragione per cui il numero di malati è destinato a crescere sensibilmente nei prossimi anni.

L’età media alla diagnosi è intorno ai 60 anni, ma in circa il 10% dei casi si manifesta prima dei 50. Raramente la malattia compare durante l'infanzia o l'adolescenza; nei casi con esordio in età compresa tra 21 e 40 anni si parla di Parkinson a insorgenza precoce.

Di cosa si tratta

La malattia prende il nome dal medico inglese James Parkinson che, nel 1817, per primo l’ha osservata e descritta definendola una “paralisi agitante”. Si tratta di una patologia neurodegenerativa e lentamente progressiva. L’esordio è spesso impercettibile, ma il decorso, se pur graduale, porta inevitabilmente a declino cognitivo e alla comparsa di immobilità e disabilità grave.

La malattia è dovuta alla degenerazione dei neuroni situati in un’area del cervello chiamata substantia nigra. Qui hanno sede i nuclei responsabili del rilascio della dopamina, un neurotrasmettitore implicato in diverse funzioni, tra le quali quelle motorie e cognitive, e nei meccanismi che regolano sonno, umore, memoria e attenzione e che ha anche l’effetto di aumentare gli impulsi nervosi ai muscoli.

La parte compatta della substantia nigra rappresenta un’importante via funzionale del controllo dei movimenti: la morte progressiva dei neuroni dopaminergici causa il calo della produzione di dopamina. Da qui l’insorgenza dei problemi a carico di movimento, postura, coordinazione e deambulazione.

La comparsa dei sintomi corrisponde alla perdita del 70% dei neuroni della substantia nigra. Tra l’inizio della degenerazione dei neuroni e l’esordio dei sintomi possono, secondo alcuni studi, trascorrere cinque anni.

Altre condizioni, come per esempio malattie cerebrovascolari, traumi o uso di farmaci che bloccano i recettori della dopamina (come gli antipsicotici), hanno caratteristiche simili a quelle della malattia di Parkinson e danno luogo ai fenomeni classificati come “parkinsonismi secondari”.

I sintomi della malattia di Parkinson

I sintomi motori principali della malattia sono tremore, rallentamento dei movimenti volontari, rigidità muscolare, lentezza e instabilità posturale.

Il tremore a riposo, di solito a una mano, che diminuisce durante il movimento e scompare con il sonno, è tipico della malattia ed è spesso il primo sintomo. Questo disturbo coinvolge pollice e indice, con movimenti simili a quelli messi in atto da chi “conta monete”.

Per il 75% dei pazienti il tremore a riposo può essere il primo sintomo, mentre il 20% dei pazienti non lo sviluppa mai. Dalle mani, il tremore si estende poi a braccia e gambe e risulta spesso più evidente su un solo lato del corpo.

La rigidità muscolare rende difficile il movimento e può interessare gli arti, il collo e il tronco. Insieme alla diminuzione della mobilità può contribuire al dolore muscolare e all’affaticamento.

La bradicinesia, ovvero il rallentamento nell’iniziare movimenti volontari con una progressiva riduzione della velocità e ampiezza di esecuzione, può interferire con molte attività quotidiane come lavarsi, vestirsi, camminare, girarsi nel letto o cambiare posizione. La bradicinesia è correlata anche ad altre manifestazioni come la modificazione della grafia, che diventa più piccola, l’aumento della salivazione per il rallentamento dei muscoli coinvolti nella deglutizione e la modificazione dell'espressione del volto, che appare come una maschera.

Nel corso della malattia possono comparire disordini del linguaggio come un indebolimento della voce (ma non tremore), che tenderà a essere bassa e monotona, e la tendenza a ripetere le prime sillabe delle parole. Disturbi del sonno nella fase REM, con agitazione e movimenti anche violenti conseguenti al sogno, sono presenti durante la malattia e possono comparire anni prima del suo esordio.

Altri sintomi motori che compaiono in fasi più avanzate sono i disturbi dell’equilibrio, che diventano evidenti durante il cammino e causano il rischio di cadute, e la modificazione dell’andatura: la persona assume una postura fissa, flessa in avanti e procede con un’andatura simile a una corsa con passo molto breve.

Altri sintomi e caratteristiche della malattia Parkinson sono:

- la diminuzione del senso dell'olfatto, in alcuni casi presente prima dell’esordio

- la distonia, cioè un disturbo del movimento caratterizzato da contrazioni muscolari involontarie, inusuale nell’esordio precoce ma più frequente dopo la terapia con levodopa

- sintomi come frequenza e urgenza della minzione, ma raramente incontinenza, e stipsi.

La malattia può indurre anche uno stato di depressione a causa della riduzione di alcuni neurotrasmettitori che controllano l’umore. Circa il 20% dei pazienti in stadio finale inoltre va incontro a demenza con compromissione della memoria, confusione e allucinazioni visive.

Cause della malattia

Le cause della malattia non sono state identificate: si ritiene sia dovuta a un insieme di fattori genetici e ambientali. Circa il 20% dei malati infatti ha una storia familiare positiva per la malattia, pertanto si ritiene che i familiari di persone affette dalla malattia di Parkinson presentino un rischio di ammalarsi lievemente superiore rispetto alla popolazione generale. Dal punto di vista ambientale il rischio è legato all’esposizione a sostanze come metalli pesanti, pesticidi, solventi.

Secondo una recente teoria, tuttavia, l’origine della malattia potrebbe essere da ricercare non nel cervello, ma nell’intestino. Alcuni studi suggeriscono infatti l’esistenza di un legame biologico tra malattia e microbioma intestinale: i batteri intestinali sembrano giocare un ruolo chiave nell’accumulo di quelle proteine che causano la morte dei neuroni dopaminergici e la conseguente comparsa dei disordini motori. Inoltre, i pazienti con malattia di Parkinson presentano un microbioma intestinale alterato e tendono a soffrire di disturbi gastrointestinali, come la stipsi, già da diversi anni prima della comparsa della malattia.

La diagnosi

La diagnosi viene effettuata dallo specialista neurologo in base alla storia clinica del paziente e alla valutazione dei sintomi neurologici. Non esistono esami strumentali che possano confermarla direttamente, ma in alcuni casi la TC (tomografia computerizzata) o la RMN (risonanza magnetica nucleare), oltre a valutazioni di neuroimaging più sofisticate, vengono utilizzate per individuare alterazioni strutturali che potrebbero causare i sintomi.

Negli anziani la diagnosi può essere difficile perché altre condizioni, prima fra tutte l’invecchiamento ma anche l’uso di alcuni farmaci, possono causare sintomi molto simili. Per esempio, il tremore essenziale è dieci volte più frequente rispetto al tremore indotto dal Parkinson, dal quale si differenzia perché si verifica durante il movimento.

In caso di diagnosi dubbia, i medici somministrano la levodopa: una risposta clinica positiva suggerisce la presenza di malattia di Parkinson.

Terapia per la malattia di Parkinson

A oggi non esiste una cura definitiva per la malattia di Parkinson, che evolve inevitabilmente verso disabilità e, per circa il 20% dei pazienti, demenza con allucinazioni visive, stato confusionale e difficoltà di memoria.

Con la terapia farmacologica tuttavia è possibile tenere i sintomi sotto controllo per diversi anni. Il farmaco di elezione è la levodopa, un precursore della dopamina che viene convertito in dopamina nel cervello. Per contrastare i suoi effetti collaterali, evitando che la levodopa sia convertita in dopamina nel sangue, questa viene somministrata in associazione alla carbidopa.

La terapia farmacologica viene iniziata immediatamente dopo la diagnosi, ma l'introduzione della levodopa viene rimandata fino a quando i sintomi diventano tali da interferire con le attività quotidiane. Inizialmente quindi la terapia prevede la somministrazione di farmaci antiparkinsoniani, gli agonisti della dopamina. Questi agiscono come la dopamina, stimolando gli stessi ricettori sulle cellule cerebrali.

L’assunzione di levodopa produce miglioramenti drastici nelle persone con malattia di Parkinson, riducendo rigidità muscolare e tremore e migliorando quindi il movimento; alcuni pazienti tornano a livelli di attività quasi normali e quelli bloccati a letto sono in grado di camminare di nuovo.

La risposta alla terapia dipende anche dall’età del paziente: in pazienti anziani la remissione dei sintomi dura più a lungo, mentre le forme giovanili sono in genere più aggressive.

Una frequente complicanza della terapia con levodopa è la discinesia, cioè l’esecuzione di movimenti involontari di bocca, viso e arti. A dieci anni dall'inizio della terapia gran parte dei pazienti ne è affetta.

L’efficacia della levodopa inoltre diminuisce nel tempo e dopo alcuni anni di trattamento i pazienti diventano soggetti a fasi durante le quali a una buona risposta al farmaco si alterna la totale assenza di risposta. Questo fenomeno prende il nome di effetto ON(sblocco del movimento)/OFF (corrispondente a blocchi motori improvvisi).

Dall’inizio degli anni ‘90 è stata introdotta la tecnica chirurgica della stimolazione cerebrale profonda. Questa tecnica, in pazienti selezionati, consente di attenuare i sintomi della malattia e le complicanze legate alla terapia farmacologica. Grazie a dei microelettrodi impiantati in strutture profonde del cervello e collegati a un neurostimolatore, è possibile modulare l'attività dei circuiti cerebrali implicati nella malattia di Parkinson. Oltre ad alleviare la sintomatologia motoria, la stimolazione cerebrale profonda è in grado di migliorare la qualità di vita del paziente e permette la riduzione della terapia farmacologica.

A tutti i pazienti è infine consigliato di praticare una regolare attività fisica. Oltre che per la salute in generale, l’esercizio fisico può migliorare la forza muscolare, la flessibilità delle articolazioni, la coordinazione dei movimenti, l’equilibrio e l’andatura con effetti positivi sulla capacità di svolgere le normali attività quotidiane.

Stefania Cifani
Stefania Cifani
Nata e cresciuta a Milano, approda alla comunicazione dopo alcuni anni nella ricerca clinica e farmaceutica. Prima all’Istituto Mario Negri, presso il Dipartimento di oncologia dove si occupa soprattutto dell’aspetto della valutazione della qualità di vita negli studi clinici, in seguito presso una società di ricerche di mercato specializzata nel settore farmaceutico e ospedaliero. Nel frattempo matura l’interesse per il giornalismo e la divulgazione per cui al termine di questa esperienza, dovuta alla chiusura della società, frequenta il Master in comunicazione e salute nei media contemporanei presso la facoltà di Farmacia dell’Università degli Studi di Milano. Inizia quindi a collaborare con riviste di settore, dirette a farmacisti, e in seguito con altre testate cartacee e online rivolte sia a professionisti sia al pubblico, scrivendo articoli di medicina e salute. Giornalista pubblicista dal 2013, oggi si divide tra lavoro e famiglia, alle prese con una figlia adolescente. Quando resta un po’ di tempo ama ballare e cucinare.

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