Tanti i luoghi comuni su questa sostanza, che sta dimostrando di avere numerose applicazioni terapeutiche.
C’è una grande confusione sull’uso terapeutico della cannabis. Come cura esiste, certo, ma, come tutti i principi attivi, si può prescrivere solo se ci sono le indicazioni. Per alcuni disturbi infatti l’efficacia farmacologica della cannabis è ormai provata da studi universalmente condivisi. Mentre per altri le ricerche sono tuttora in corso.
La cannabis light
La chiamano così perché è quasi del tutto priva del tetraidrocannabinolo (THC), e per questo è senza effetti psicotropi. È dunque legale, tanto che in Italia stanno aprendo numerosi negozi che la commercializzano. Ma attenzione, non serve per curare.
Cominciamo quindi a fare chiarezza su come si prepara la cannabis terapeutica. A renderla curativa sono soprattutto i principi attivi THC e CBD (cannabidiolo). Quando le piante sono al punto massimo di rigogliosità, vengono tagliate e, dopo un periodo di “riposo”, si procede all’estrazione delle sostanze.
«I problemi ci sono per quanto riguarda la fornitura», interviene Manuela Bandi, farmacista di Milano e direttrice della Fondazione Muraldi di Federfarma. «La produzione italiana fa capo allo stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze, ma al momento è sospesa. La cannabis terapeutica che acquistiamo quindi viene dai Paesi Bassi. Noi però non la acquistiamo direttamente, ci sono dei rivenditori autorizzati. Questo anche per un maggiore controllo. Ogni lotto viene valutato dai severi controlli dell’AIFA (Agenzia italiana del farmaco), che regolamenta la commercializzazione dei farmaci nel nostro Paese».
Come acquistarla
La cannabis terapeutica viene “passata” dal Servizio Sanitario Nazionale, almeno sulla carta. Nella maggior parte delle Regioni infatti il rimborso non viene ancora eseguito.
«La ricetta è comunque obbligatoria e va esibita», aggiunge Manuela Bandi. «Al momento è regolamentata dalla legge 94/98, quella in sostanza che regola l'uso "off-label" di un farmaco, cioè al di fuori delle indicazioni terapeutiche per cui quel farmaco è registrato oppure, come nel caso della cannabis, per un farmaco senza registrazione dell'uso».
La ricetta può essere compilata anche dal medico di base previa sottoscrizione del consenso informato da parte del paziente. Deve riportare i dati del medico curante, compreso il numero di iscrizione all’Ordine dei medici, la motivazione della prescrizione, l’indicazione relativa alla forma galenica, il dosaggio e la quantità. Non riporta invece i riferimenti del paziente, ma solo un codice alfanumerico. La ricetta ha un mese di validità.
I falsi miti
Sfatiamo anche un altro luogo comune: la cannabis curativa non è il cosiddetto spinello.
«Il farmacista, su indicazione dello specialista, prepara delle bustine monodose simili a quelle del tè», continua la Manuela Bandi. «E in base a quanto indicato dal medico, il paziente a casa può utilizzarle sotto forma di tisana, oppure come fumenti da eseguire con un apparecchio speciale. È inoltre disponibile una formulazione sotto forma di olio, che il paziente assume a gocce sublinguali». Effetti collaterali? Pressoché assenti.
Altro mito da demolire: non è un antidolorifico nel senso stretto della parola. A dimostrarlo è stata anche una metanalisi pubblicata da Lancet Neurology. Dalla valutazione di una serie considerevole di studi sui dolori neuropatici, i più comuni, è emersa la raccomandazione di non usarla, perché non serve.
«Ha invece un’azione antispastica, cioè di riduzione degli spasmi muscolari, provata da diverse ricerche», dice Paolo Marchettini, Responsabile di medicina del dolore al Centro diagnostico italiano e all'Ospedale San Raffaele. «Al momento nel mio reparto ho pazienti con dolori neurologici che stanno seguendo anche una cura con la cannabis proprio per ottenere un rilassamento dei muscoli. E quindi un miglioramento del dolore».
Ha anche un uso pediatrico: per l’epilessia che non risponde ai farmaci e in caso di dermatite bollosa, perché chi soffre di questa malattia rara torna ad avere una buona qualità di vita.
Si utilizza anche in oncologia, ma gli specialisti frenano gli entusiasmi. «Può avere un effetto quando il dolore è associato a contratture e quando è presente una forte componente ansiogena», chiarisce Augusto Caraceni, direttore Cure palliative e terapia del dolore dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. «Parecchi studi clinici inoltre hanno dimostrato che è efficace in caso di nausea da chemioterapia. Comunque, una cosa è certa: la cura deve essere personalizzata e affidata a mani esperte».